Mondo fluido

Prima parte

 

La geografia politica, nel primo scorcio del XXI secolo, appare in grande evoluzione. All’indomani della caduta del Muro di Berlino, la fine della Guerra Fredda (durante la quale il mondo era grossolanamente diviso in due blocchi contrapposti) e l’apparente affermarsi un po’ dovunque di una serie di movimenti atti a democratizzare i propri Paesi sembravano abbracciare le tesi sostenute da Francis Fukuyama nel suo libro di maggior successo (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), e cioè che la fine dei regimi comunisti nell’Europa Orientale rappresentasse la conferma della tendenza a livello globale di conformare i sistemi politici ai principi della democrazia liberale. Ma col senno del poi si può facilmente vedere che la storia non è finita: i grandi cambiamenti nelle alleanze e gli sviluppi economici dimostrano che la fine della Guerra Fredda ha rappresentato solo un episodio in un movimento con radici molto più profonde e ramificate. Un recente, autorevole studio* ipotizza che ciò potrebbe dipendere dal fatto che negli anni successivi alla fine della II Guerra Mondiale l’ordine internazionale si è progressivamente riconfigurato da un sistema ibrido di alcuni Stati sovrani ed altri appartenenti ad un impero, ad uno universale di soli Stati sovrani governati da istituzioni ed accordi internazionali. Tale sistema è stato progressivamente messo in discussione, soprattutto dopo il 1989, perché spesso i confini statali non hanno considerato appieno realtà storiche o componenti etnico – religiose locali, è mancato un adeguato riconoscimento effettivo dei nuovi Paesi nei consessi internazionali, e sempre più frequentemente sono emerse rivendicazioni legate ad ingiustizie storiche, alle diseguaglianze economiche, alle gerarchie sociali ed alle iniquità intergenerazionali. Nonostante l’attuale ordine internazionale abbia cercato di garantire – come mai nella storia – la protezione dei diritti umani, e l’impegno ai liberi mercati abbia accresciuto la ricchezza globale aggregata (il Pil mondiale è cresciuto di oltre 4 volte nel periodo 1989-2019, e circa il 70% dei 2 mld di persone che vivevano in estrema povertà ne sono uscite), le rivendicazioni sulle ingiustizie (ultima, l’accesso ritardato ai vaccini durante la recente pandemia) ne minano la legittimità, soprattutto in Paesi che non hanno mai abbandonato l’identificazione del liberalismo (in tutte le sue accezioni) come un sistema legato all’Occidente, culturalmente diverso dal proprio, e considerato “il sistema dei Bianchi”. A questo aspetto, si aggiunge la più recente crescita di movimenti legati alla denuncia del razzismo, dello sfruttamento del colonialismo, alla rivendicazione di compensi per torti subiti nel passato, o per la soluzione di problematiche future. Non è un caso che la maggioranza dei Paesi del cosiddetto “Global South” siano stati per lo meno tiepidi nella denuncia della violazione del territorio ucraino.

Questa realtà mi sembra abbia contribuito a cambiamenti significativi nella geografia politica: nuove ambizioni di carattere imperialistico (portate avanti in maniera apparentemente soft, come la Belt and Road Initiative cinese, od in maniera più brutale come l’aggressione russa alla Georgia, alla Cecenia ed all’Ucraina), la sostituzione di prestiti a Paesi meno sviluppati con acquisizioni di imprese in settori strategici e l’affermarsi di nuovi personaggi con aspirazioni di ricreare il potere del passato si contrappongono alla perdita di influenza di alcuni Paesi (USA, GB, Francia). Tale ultimo aspetto è evidente nell’Africa Equatoriale ed Occidentale, dove i colpi di stato militari hanno ripreso una frequenza dimenticata da molti anni (12 episodi dal 2020 ad oggi quando dal 1974 al 2003 erano stati 13). Il rovesciamento dei governi da parte delle forze armate – spesso appoggiato dalla popolazione – avviene per varie ragioni: il desiderio di ridurre in maniera netta la dipendenza dalla ex potenza coloniale (Francia) ed a beneficiare maggiormente delle ricchezze di materie prime rispetto a quanto permesso da regimi corrotti e ad essa spesso legati, la mancanza di una classe dirigente a parte quella al potere ed ai militari, la speranza di arginare l’attività di milizie legate a gruppi terroristici che pregiudicano la sicurezza personale, ed il persistere di storici conflitti a carattere tribale; oltre all’insofferenza crescente nei confronti dell’espansionismo economico cinese (sembra questa una delle cause del recente golpe in Gabon). La perdita di influenza delle potenze tradizionali è anche evidente in Medio Oriente, dove l’Arabia Saudita, storico alleato degli USA, ha stretto forti legami non solo economici con la Russia (da cui le tensioni sul mercato petrolifero, non legate a squilibri di mercato) e con la Cina, la quale ha mediato una riapertura dei rapporti fra la monarchia araba e la teocrazia iraniana, storica nemica della casa di Saud.

Il nuovo attivismo dei Paesi del Global South, soprattutto di quelli con regimi autoritari, è evidente nei risultati dei due appuntamenti dell’estate appena terminata. La riunione di BRICS ha deciso di ammettere altri sei Paesi al consesso, ed ha sottolineato l’ambizione dei due partecipanti più grandi di ridisegnare le aree di influenza in zone strategiche; il G20 ha ammesso l’Unione Africana come membro permanente, e la presidenza indiana della riunione ne ha evidenziato il tentativo di ritagliarsi un ruolo di intermediazione internazionale. La fluidità di questo panorama ha ripercussioni in molte aree del mondo, finanche in certe isole dell’Oceano Pacifico, dove vari Stati sembra stiano rivalutando le proprie alleanze strategiche ed economiche, mentre gli accordi fra singoli Paesi democratici, anche geograficamente distanti (es: QUAD), non paiono essere argini davvero efficaci per ridurre la fragilità di un sistema ad allineamento plurimo e variabile.

Sotto il profilo economico alcune delle conseguenze cominciano a manifestarsi con una diminuzione del flusso occidentale degli investimenti diretti – in particolare la costruzione di nuovi impianti produttivi – nei Paesi di industrializzazione recente o in via di sviluppo, e con un ridisegno delle catene delle forniture verso nazioni amiche o almeno non ostili, con le inevitabili ricadute sul fronte commerciale; il Fondo Monetario Internazionale prevede che l’impatto a lungo termine di decisioni di friend-shoring possa causare una diminuzione del PIL mondiale di circa il 2%, e la maggior vischiosità degli scambi potrebbe contribuire ad aumenti dell’inflazione.

Sotto il profilo politico, le sfide in corso mi sembrano avere un impatto particolare su tutto l’ordinamento internazionale concordato alla fine dell’ultima Guerra Mondiale: istituzioni alla base del reciproco rispetto fra le nazioni e garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo (ONU), della salute pubblica (WHO), dell’ordine negli scambi economici (WTO) e nella finanza (FMI), e tutte le altre agenzie e trattati a loro collegati, nate per cercare di garantire (almeno una parvenza) di Ordine Mondiale sembrano essere sempre più impotenti ed ininfluenti. E ciò è preoccupante in un periodo nel quale problematiche generali quali il rischio di proliferazione di ordigni nucleari, la contrazione del commercio globale, le migrazioni, la riduzione del rispetto dei diritti umani, nonché le sfide legate ai cambiamenti climatici ed alla perdita di biodiversità, alla necessità di regolamentare le applicazioni dell’intelligenza artificiale e delle biotecnologie, ed a mantenere aperto e libero il cyberspazio richiederebbero una governance globale lungimirante capace di mediare attivamente ed in tempi ragionevoli fra le differenti istanze locali e le necessità di 8 mld di persone.

L’assenza dei leader principali (con l’eccezione del presidente degli Stati Uniti) dall’ultima assemblea generale delle Nazioni Unite non mi sembra andare in questa direzione.

Ahimè.

 

 

* C. Reus-Smit, A. Zarakol: Polymorphic justice and the crisis of international order; in International Affairs, Chatam House, London, January 2023

 

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