We the People

A partire dall’inizio del secolo, il discorso politico ha visto progressivamente appannarsi le ideologie del passato; il linguaggio si è adeguato, rendendo i concetti di ‘destra’ e ‘sinistra’ maggiormente rivolti agli aspetti più radicali ed ha reso sempre più popolari principi quali ‘giusto’ e ‘sbagliato’, implicando frequentemente una connotazione morale al dibattito. Un corollario di questo fenomeno consiste nella contrapposizione fra la razionalità insita nell’organizzazione sociale dello stato moderno liberal – democratico e l’irrazionalità di movimenti antagonisti contraddistinti da una forte radice emozionale. Non direi che il populismo – il fenomeno del quale sto cercando di esaminare alcune caratteristiche – possa essere considerato un’ideologia, posto che l’uso corrente del termine, che risale al XIX secolo, si applica a prese di posizione affatto diverse, e nei fatti è un termine generico che comprende sub-categorie quali il nazionalismo, il nativismo, l’avversione all’establishment, etc.; direi che si riferisce più ad una forma di divulgazione piuttosto che ad una teoria politica definita. Secondo alcuni studiosi, si può meglio identificare come una logica politica a-ideologica o come una strategia di comunicazione che crea una cesura fra due gruppi relativamente omogenei, il popolo (non meglio identificato) e le cd. élites (membri dell’alta burocrazia, accademici, scienziati, …), e che utilizza le emozioni (stati mentali con un carattere fenomenico specifico, per esempio la rabbia che presuppone ostilità verso qualcosa/qualcuno) e le passioni che ci identificano per quelli che siamo. È efficace perché invece di tenere separato il lato razionale da quello privato (sede delle emozioni), ingloba queste ultime nel discorso politico: mostrando un netto distacco fra ‘quelli al potere’, rappresentati dalla figura del politico tecnocratico e razionale, ed il ‘popolo’, rappresentato da individui appassionati e coinvolti che spesso hanno atteggiamenti poco ortodossi, il populismo contribuisce alla creazione di una frontiera fra l’establishment ed il popolo1.

Le radici profonde della diffusione di questo fenomeno possono probabilmente essere ricercate nella sensazione di essere lasciati indietro, in un periodo di grandi mutamenti economici e sociali, di non essere più all’altezza della nuova situazione, e quindi di non essere accettati, una sensazione che comporta frequentemente reazioni di autodifesa fra le quali tendenze a carattere narcisistico o aggressive per compensare la sensazione di esclusione. Più in generale, le cause che incidono sullo sviluppo degli atteggiamenti populisti sono stati identificati in vari ambiti: fattori economici, dove a livello individuale la povertà persistente o recente – o, a livello sociale, il peggioramento della situazione di una certa categoria alla quale si sente di appartenere rispetto ad altri gruppi od individui – comportano una perdita di fiducia nei confronti del governo e dei più fortunati; fattori socio – culturali, per i quali, in periodi di grandi e rapidi cambiamenti (atti terroristici, pandemie, crescita di flussi migratori, trasformazioni tecnologiche, …) l’individuo si sente in pericolo di perdere i propri punti di riferimento ed ha la sensazione che la propria identità sociale rischi di essere compromessa. Correlati a questi ultimi fattori sono le sensazioni di paura e rabbia legate alla valutazione dei cambiamenti ed alla conseguente reazione, anche se con sfaccettature differenti: mentre per la prima si tratta della paura per quanto può succedere in termini della propria identità o accesso alle risorse (si pensi al cambiamento climatico od all’incremento dei flussi migratori), la rabbia è causata dal mancato raggiungimento dei propri obiettivi  per cause considerate esogene (es. difetti e inefficienze delle élites), o dalla violazione altrui di normative (es. corruzione del governo); in tale caso si considera che i presunti impedimenti possano essere rimossi tramite attacchi (verbali e non solo). A conferma dell’importanza delle emozioni nello sviluppo del populismo, una recente analisi effettuata in 15 Paesi europei ha confermato come i fattori economici e socio – culturali abbiano un impatto statisticamente inferiore rispetto a quelli emozionali nella diffusione di linguaggi e comportamenti populistici2.

Uno degli aspetti omogeneizzanti, e di maggior successo, di questo fenomeno fra appartenenti ad ambienti socio – culturali differenti, e quindi con sensibilità emozionali, esigenze ed obiettivi diversi, è la religione, un tema del messaggio populista a carattere identitario e trasversale utile per una compensazione del vulnus emozionale o psicologico negli individui e nella società a seguito della secolarizzazione imperante, nonostante l’aspetto religioso del messaggio sia focalizzato sugli aspetti della tradizione civica e culturale e non su quelli spirituali. Anche perché il populismo – con la sua visione generale manichea di popolo (buono) ed establishment (cattivo) – ricalca alcuni dogmi di diverse confessioni; l’aspetto identitario del messaggio, seppure a carattere secolare e quindi spesso in contrasto con certe posizioni delle religioni sui diritti umani, permette di identificare il popolo ed i suoi nemici in funzione delle loro radici religiose, ripercorrendo la narrazione di molte fedi, esse stesse a carattere populista e quindi facilmente amalgamabili.

Come già accennato in un passato numero di Abbi Dubbi, per capire la diffusione ed il successo del fenomeno populista non si può prescindere dal considerare anche alcuni processi legati all’evoluzione ed al funzionamento cerebrale. Nei primati umanoidi c’è una relazione quantitativa fra la dimensione del cervello e quella del gruppo di appartenenza, che non si verifica negli altri vertebrati; la maggior dimensione del cervello viene spiegata con la complessità nella creazione di abitudini mentali dettate dalle necessità dell’integrazione del gruppo nel nostro ambiente primordiale. Da questo deriva una delle caratteristiche fondamentali della psicologia umana legata alla nostra ancestrale mentalità tribale, quando la coesione del gruppo era fondamentale per la sopravvivenza; inoltre, i meccanismi fisiologici del risparmio di energia comportano che l’attenzione necessaria a valutare criticamente un messaggio, soprattutto se ripetuto con frequenza, sia inferiore se condiviso dal gruppo al quale si ritiene di appartenere.

Mi sembra che il populismo, declinato in vari stadi di intensità, ormai pervada la comunicazione un po’ in ogni settore in maniera quasi esclusiva, e mi pare sia determinante alla polarizzazione dei campi e all’emersione di personaggi carismatici ed ambiziosi (siano questi politici o accademici), senza i quali il messaggio non riuscirebbe probabilmente ad avere risonanza. Anche nelle forme più popolari del confronto televisivo viene ricalcato l’atteggiamento ormai preponderante del dibattito politico, con un format consolidato che prevede una serie di partecipanti di opinioni differenti, ai quali è concesso un tempo ristretto per l’esposizione delle loro tesi, e dove l’abilità del conduttore del programma consiste proprio nello stimolare una discussione talmente accesa da risultare inconcludente. La visione manichea del populismo, implicitamente escludendo a priori il Principio di falsificabilità, veicola certezze3 (non verità!) su quasi ogni argomento di pubblico interesse, crea confusione nell’osservatore e contribuisce all’affermarsi di una (contro)cultura basata principalmente sulle emozioni e su una lettura monodirezionale dei fatti; la rabbia e non il dubbio diventa la cifra di ogni confronto.

Il potere di una comunicazione “arrabbiata”, se esposta da personaggi considerati autorevoli od in contesti favorevoli, induce sovente alla ricerca di un capro espiatorio, creando sentimenti ostili poi difficili da rimuovere. Si pensi all’antisemitismo, diffuso dalla predicazione della Chiesa romana a partire dal Medio Evo in maniera così capillare attraverso predicatori in tutta Europa (in assenza dei social networks!) da entrare nel DNA culturale occidentale, tanto da riemergere periodicamente in maniera prepotente e tragica anche ai giorni nostri. Ma anche senza capri espiatori, una volta che la narrazione populista abbia creato gruppi sufficientemente grandi e consolidati perde influenza in maniera molto lenta (se la perde) solo quando la complessità delle problematiche alla base del messaggio siano valutate in tutti i loro risvolti, o l’irragionevolezza delle soluzioni proposte, od il loro costo, o la tempistica risultino impraticabili; o anche quando la figura del leader carismatico che le ha proposte si appanna. Per esempio, le recenti elezioni europee hanno dimostrato la perdita di attrattiva delle proposte dei partiti ‘verdi’, dopo che la necessità di affrontare il problema del cambiamento climatico, all’ordine del giorno mondiale da decenni, si è scontrata con provvedimenti dai costi proibitivi e pressoché inattuabili nei tempi indicati e con l’assenza prolungata dal teatro mediatico di Greta Thunberg, la protagonista indiscussa della stagione in cui si erano decisi quei provvedimenti.

Il mio dubbio è che i cambiamenti epocali ai quali stiamo assistendo prendano una direzione assai pericolosa a causa del rinsecchimento della radice di un’evoluzione razionale: il dibattito informato con l’apertura a compromessi per trovare soluzioni accettabili seppur magari non perfette. Non mi sembra che la polarizzazione, l’invidia, la rabbia, la ricerca di leaders ambiziosi con soluzioni facili in tasca per problemi complessi, l’accettazione della compressione delle libertà siano buone premesse per un mondo migliore: dovremmo contrastare il fatto che … il potere delle emozioni sta trasformando le democrazie in modi che non possono essere ignorati …4. Credo bisognerebbe riprendere in mano un processo complessivo di rieducazione culturale che ci aiuti a dissipare le nebbie nelle quali ormai siamo tutti immersi. L’aumento costante e ovunque dell’astensionismo dalle urne elettorali, ed i conseguenti rischi legati alla reale rappresentatività dei governi, mi sembrano un sintomo evidente della confusione nella quale ci ha gettato l’invadenza della comunicazione populista, le cui conseguenze per la democrazia (demos: popolo; kratos: forza, potere) potrebbero essere nefaste.

We the people???

1 B.Moffitt: Populism versus Technocracy. Performance, Passions, and Aesthetics’; in: P.Cossarini, F.Vallespín (eds.): Populism and Passions; Routledge, London, 2019

2 D. Abadi, T. Bertlich, J.W. Duyvendak, A. Fischer: Populism Versus Nativism: Socio-Economic, Socio-Cultural, and Emotional Predictors; in: American Behavioral Scientist, Apr. 2024.

3 Karl R. Popper: Congetture e confutazioni, (prefazione italiana); Il Mulino, Bologna 2009

4 W. Davies: Nervous states: how feeling took over the world; Jonathan Cape, London, 2019

 

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